L'albero del riccio, di Antonio Gramsci

Caro Delio,

mi è piaciuto il tuo angoletto vivente coi fringuelli e i pesciolini. Se i fringuelli scappano

dalla gabbietta, non bisogna afferrarli per le ali o per le gambe, che sono delicate e possono rompersi

o slogarsi; occorre prenderli a pugno pieno per tutto il corpo, senza stringere. Io da ragazzo ho allevato

molti uccelli e anche altri animali: falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie, cardellini,

canarini, fringuelli, allodole ecc. ecc.; ho allevato una serpicina, una donnola, dei ricci, delle tartarughe.

Ecco dunque come ho visto i ricci fare la raccolta delle mele. Una sera d’autunno, quando

era già buio, ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un

campo pieno di alberi da frutta, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento.

Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque: due piú grossi e tre piccolini. In fila indiana si sono avviati

verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e

con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano

insieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all’altra. Ma le mele giacenti per terra si vede

che non bastavano; il riccio piú grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto

curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie. Si posarono su un ramo carico e incominciarono a

dondolarsi, ritmicamente: i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre piú spesso,

con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre,

tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano

infilzati: c’era chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a

infilzare sette o otto mele per ciascuno.

Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci

in un sacchetto e ce li portammo a casa.

Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a

tutti gli animaletti, blatte, maggiolini ecc., e mangiavano frutta e foglie d’insalata. Le foglie fresche

piacevano loro molto e cosí li potei addomesticare un poco; non si appallottolavano piú quando vedevano

la gente. Avevano però molta paura dei cani. Io mi divertivo a portare nel cortile delle bisce

vive per vedere come i ricci le cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia, saltava lesto

lesto sulle quattro gambette e caricava con molto coraggio. La biscia sollevava la testa, con la lingua

fuori e fischiava; il riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con le gambette davanti, le

mordeva la nuca e poi se la mangiava a pezzo a pezzo. Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno

se li era presi per mangiarli.

Ti scriverò un’altra volta sul ballo delle lepri, dell’uccello tessitore e dell’orso, e su altri animali

ti voglio raccontare altre cose che ho visto e sentito da ragazzo: la storia del polledrino, della

volpe e del cavallo che aveva la coda solo nei giorni di festa ecc. ecc. Mi pare che tu conosca la storia

di Kim, le novelle della jungla e specialmente quella della foca bianca e di Rikki-Tikki-Tawi?

Ti bacio.

ANTONIO

Il manalbero

Nel mezzo del bosco che circonda un vecchio castello abitato da 5 maghi, vive una pianta davvero speciale. Il “Manalbero” infatti produce dei “manfrutti” rossi, gialli, verdi e blu, grossi come angurie e forniti di appendici che ricordano le dita di una mano. Il manalbero ha anche la possibilità di parlare, ma solo di notte. E proprio una notte, mentre tutto è avvolto nel silenzio, dal bosco si alza un pianto dirotto, accompagnato da ripetute richieste di aiuto. Il primo a svegliarsi è mago Oreste, il mago contadino, che dorme sempre all’aperto per sorvegliare i prodotti del suo orto. Si dirige verso il bosco e si trova di fronte al manalbero singhiozzante.

“ Perché piangi?” gli chiede.

“Piango perché i miei frutti sono ormai così grossi che faccio fatica a reggerli. A causa del peso eccessivo, le mie radici si sono infiammate, il mio tronco è gonfio e dolorante e i miei rami stanno per spezzarsi. Senti come scricchiolano?”

“Si, si lo sento e penso di poterti aiutare però devo tornare al mio capanno degli attrezzi. Mago Oreste si dirige velocemente verso il castello e poco dopo è di ritorno con un grosso fascio di bastoni.

“Che hai intenzione di fare con quei cosi?” gli chiede il manalbero.

“Questi cosi sono dei tutori che uso nel mio orto per reggere le piantine di pomodori e di fagioli. Ora li pianterò sotto i tuoi rami e loro ti aiuteranno a sopportare meglio il peso dei manfrutti. Fidati di me!”

Così dicendo mago Oreste termina la sua opera di puntellamento e infine convinto di aver fatto un ottimo lavoro, saluta il manalbero e se ne torna a dormire. La notte successiva, però, dal bosco si leva nuovamente un pianto dirotto. Questa volta i lamenti svegliano maga Ambrosia, ottima apicoltrice e bravissima nelle preparazioni di miele e marmellata. Decisa ad aiutare la creatura che invoca aiuto, maga Ambrosia cammina sicura sui sentieri sterrati e giunge davanti al manalbero.

“Perché piangi caro?” gli chiede

“Perché ho bisogno d’aiuto: il peso dei miei frutti sta spaccandomi tutti i rami. La notte scorsa mago Oreste ha cercato di migliorare il mio stato con dei tutori. Purtroppo quei legni erano troppo sottili e hanno retto soltanto alcune ore.

“Capisco – dice maga Ambrosia – e sono certa di poterti aiutare in modo più efficace. Ora coglierò un po’ dei tuoi manfrutti e otterrò due risultati: allevierò il peso che devi sopportare ed io potrò preparare squisite marmellate di manfrutto!”

“Ma tu sei matta! Io non voglio rinunciare a nessuno dei miei frutti. Perciò, se questa è l’unica soluzione che proponi, tornatene al castello e grazie lo stesso”. Nel bel mezzo della notte seguente è mago Ubaldo ad essere svegliato dalle invocazioni d’aiuto che lo raggiungono attraverso le finestre della sua stanza nella torre. Scende la ripida scala e uscito all’aperto cerca di orientarsi verso la direzione da cui provengono i dolenti richiami e si ritrova a camminare nel bosco. Giunto davanti al manalbero si fa raccntare i suoi problemi e quali rimedi gli hanno proposto mago Oreste e maga Ambrosia. Alla fine sbotta “Ciarlatani, incapaci, buoni a nulla. Per fortuna tua, caro manalbero, io sono mago Ubaldo specializzato in filtri e pozioni capaci di risolvere qualsiasi problema. Tu aspetta fiducioso: tornerò prima dell’alba”.  Rientrato nel suo laboratorio, mago Ubaldo si mette all’opera, mescolando strani liquidi e distillandoli in storte e alambicchi. Alla fine il rimedio è pronto è armato di una grossa siringa, torna nel bosco.

“Eccomi qui con la tua salvezza tra le mani. Questo portentoso rimedio guarirà le tue radici, sgonfierà il tuo tronco e riparerà le crepe dei tuoi rami. Pronto per l’iniezione!”

“Ma quale iniezione e iniezione. Io ho paura degli aghi. Quindi, ti ringrazio per le buone intenzioni, ma ti proibisco di sforacchiarmi!” per la quarta notte consecutiva i dintorni del castello sono percorsi dagli echi si un pianto inconsolabile. Stavolta a svegliarsi è maga Jolanda, entomologa, che divide la sua camera con farfalle, cavallette, coccinelle, formiche, libellula….. si inoltra nel bosco, arriva presso il manalbero e subito si impietosisce per il suo stato di salute davvero precario.

“Hai davvero un grosso problema a causa della dimensione notevole dei tuoi manfrutti. Eccoti, perciò, la mia idea: chiamerò i miei insetti e chiederò loro di rosicchiare pian piano la loro buccia molto spessa, in modo da renderli meno pesanti e più sopportabili per i tuoi rami. Sei contento?”

E hai anche il coraggio di chiedermi se sono contento. Dimmi, come ti sentiresti se migliaia di bestiole ronzanti e voraci ti si posassero addosso e cominciassero a mangiucchiarti viva? No grazie, posso fare a meno di questo trattamento”. Cala un’altra notte e di nuovo il manalbero lancia le sue invocazioni disperate. Mago Evaristo sta attraversando il bosco per tornare al castello. È in compagnia delle sue rane con le quali ha trascorso gli ultimi quattro giorni in varie discoteche, dove hanno insegnato i movimenti di un nuovo ballo: l’anfibrò – dance- anche se è molto stanco e non vede l’ora di farsi una bella dormita nel suo letto, non ignora gli appelli del manalbero e si dirige verso di lui per soccorrerlo. Ascolta con attenzione i vari tentativi compiuti dai suoi amici maghi e , alla fine del racconto, estrae da una tasca dei calzoni una bacchetta magica. La agita e pronuncia queste parole:”Uno, due, tre. Le tue radici diventino piè!” immediatamente le radici del manalbero escono dalla terra, si accorciano e si trasformano in piedi.

“E con queste appendici che ci faccio?” chiede stupito il manalbero.

“Semplice – risponde mago Evaristo – li devi usare per spostarti un poco, verso quello spiazzo. Credi di potercela fare!”

“Ci proverò!” e con cautela il manalbero compie i passi necessari per raggiungere la sua nuova sistemazione. “Molto bene – dice mago Evaristo – se ti senti comodo rimettiamo tutto in ordine”. Prende la bacchetta magica e pronuncia: “tre, due, uno… dei tuoi piedi non ne resti nessuno!”. Subito le radici tornano a distendersi e ad allungarsi nel terreno. “E adesso che ho cambiato collocazione, conti di fare qualcosa di serio per aiutarmi?”

“calma, calma”, replica Evaristo chinato sul terreno del bosco e intento a perlustrare con attenzione. “Si può sapere che cosa cerchi?”

“Cerco un seme e quando l’avrò trovato lo pianterò proprio vicino a te”- finalmente il mago trova il piccolo seme: lo pianta, lo ricopre con delicatezza e lo innaffia con alcune gocce d’acqua recuperate dalle rane in uno stagno vicino. Nuovamente Ernesto prende la bacchetta magica e sussurra:” quattro, cinque, sei… presto, presto un nuovo alberello vorrei!” accompagnato da un boato sordo, dal suolo spunta un germoglio che si trasforma in un gran, de manalbero, dal tronco possente e dai lunghi rami. “Che bello! Finalmente avrò un compagno con cui parlare durante la notte, a cui raccontare storie e confidare segreti, grazie”. “sono felice che apprezzi il mio operato, ma il mio lavoro non è ancora terminato!”. Così dicendo si pone tra i due alberi, tocca alternativamente il loro tronco con la bacchetta e ordina: “ Sette, otto, nove del mio potere do le prove. Se è un aiuto quello che vuoi, metà dei tuoi frutti diventino suoi!”. Subito parecchi manfrutti di vari colori si staccano dai rami del primo manalbero e, usando le loro appendici a forma di dito, scendono con cautela lungo il tronco, camminando sul terreno, risalgono sul tronco del secondo manalbero e si posizionano sui suoi rami. “Oh, che delizia, che gioia, che sollievo. Il peso che mi opprimeva è scomparso, respiro meglio, i rami sono più leggeri e il tronco si è sgonfiato. Grazie, mago Evaristo! Adesso ho un amico che condivide i miei frutti. Quando non avrai sonno, potrai venire a chiacchierare con noi!”. Ormai è l’alba: la luce del sole si fa strada nel cielo e i due manalberi tornano silenziosi. Evaristo accarezza le loro cortecce e, in compagnia delle sue rane, esce dal bosco e si dirige al castello. Ha il cuore leggero e si sente molto felice per aver fatto una buona azione.

(Fiorenza 2003)

(I bambini di prima e Fiorenza – 2010 -)

L’apparenza inganna

Nella fattoria di Belcolle, circondata da prati e alberi, vivevano felici il cavallo Peppo, il cane Briciola e la gatta stella: i tre erano molto amici e di notte dormivano insieme nella stalla. Un afoso pomeriggio d’estate arrivò davanti al cancello della fattoria un insolito animale che camminava faticosamente. Era un pavone stanco per aver vagato a lungo nella campagna, dopo essersi perso. Timidamente entrò nel cortile e si guardò intorno: sperava di trovare qualcuno disposto a fornigli  un po’ di ristoro e un cantuccio dove riposare. Tutto era silenzioso e in giro non si vedeva anima viva. Stremato il pavone stava per andarsene quando nell’angolo più riparato dell’aia scorse un pollaio. “la troverò del cibo” pensò avvicinandosi al recinto. Infatti scoprì due grosse ciotole che contenevano pastone, l’una, e dell’acqua fresca, l’altra.  Iniziò a  mangiare avidamente non si accorse che alle sue spalle erano arrivati il gallo Osvaldo e le sue 5 galline che quel giorno avevano razzolato in un campo attiguo alla fattoria, alla ricerca di insetti, vermi e semi. “ehi, uccellaccio spennacchiato, chi ti ha dato il permesso di approfittare della nostra cena?” gli gridò Osvaldo. Spaventato il pavone si voltò e farfugliando rispose “Scusa amico, ma sono affamato. Non mangio da giorni e non ho saputo resistere….” Le galline, infuriate, presero a beccarlo e ad urlagli “vattene, brutto ladro! Tornatene da dove sei venuto!” Tutto quello starnazzare svegliò Briciola che, all’ombra di un cespuglio, schiacciava un pisolino. Si precipitò nel pollaio e subito Osvaldo lo apostrofò: “Dove eri quando questo lestofante è entrato nel cortile? Come il solito; invece di stare all’erta, tu dormi!”

“No, non dormivo! – Rispose il cane – Riposavo con gli occhi chiusi. Ma ora, piuttosto, cerchiamo di scoprire chi è e da dove viene questo strano tipo….”

“Sono uno che si è smarrito e ha tanta fame!......”  esclamò il pavone. “Ok, ma questo non ti da il diritto di ingozzarti con il nostro cibo!” ribatterono Osvaldo e le galline. “Vi chiedo nuovamente scusa, ma sono giorni che cerco di tornare a casa mia, nel mio giardino….”  “Ah, capisco. Sei un signor cittadino. E dimmi un po’, che lavoro facevi laggiù?” gli chiese Briciola. “Cosa vuol dire che lavoro facevo? Io non facevo nessun lavoro. Io sono un pavone e me ne stavo nel giardino solo per essere ammirato dagli umani per la mia eleganza, per la mia coda meravigliosa. Guardate!” e così dicendo il pavone aprì il ventaglio delle sue lunghissime penne che, però, si incastrarono nelle maglie della rete che cingeva il pollaio. “ Chi è quella creatura così buffa?” domandò Pipino, appena giunto in compagnia di Stella che ridacchiava osservando la buffissima scena. “ dice di essere un pavone e che il suo mestiere è quello di farsi guardare la coda!” sogghignò Briciola. “Un lazzarone, insomma!” concluse sarcastica Stella. “No, non è vero. Io sono un uccello con piume splendide e la mia presenza abbellisce qualsiasi paesaggio!”

“per me resti un buono a nulla. Ma vieni al sodo e dicci: cosa vuoi da noi?” chiese Briciola. “Bè, mi piacerebbe rimanere: bel posto, aria buona, tanti nuovi amici…… e vi terrei compagnia allietandovi con la ruota che so fare con la mia coda!”

“Ma tu sei scemo” gli risposero tutti gli animali in coro. “Se vuoi restare devi trovarti un vero lavoro perché qui alla fattoria, tutti hanno un compito da svolgere!”

“Noi facciamo le uova” dissero le galline.

“Io sveglio il padrone ogni mattina” affermò Osvaldo.

“Io invece lo porto in groppa o tiro il carretto” continuò Pipino.

“io vado a caccia di topi” aggiunse Stella.

“E io come avrai ben capito, vigilo attentamente su tutto e su tutti!” terminò Briciola.

“Oh, io non saprei proprio di cosa occuparmi!” sospirò mesto il pavone.

“Allora, quando è così, vattene. A Belcolle non c’è posto per te!” sentenziò Stella, parlando a nome di tutti. Il pavone chinò il capo e mogio mogio, si avviò verso il cancello, scortato da Briciola. Ormai era giunta la sera e non sapendo dove andare lo scoraggiato pennuto scelse un albero abbastanza vicino alla fattoria, si posò su un ramo e si addormentò. Nel cuore della notte, mentre tutti riposavano, un’ombra furtiva si diresse al pollaio: era una volpe che sperava di acchiappare una gallina tenera e grassoccia. Ma il frusciare tra l’erba alta aveva destato il pavone che, grazie alla luce della luna, potè osservare la scena. Intuito il pericolo che correvano Osvaldo e le sue galline, lanciò l’allarme strillando a più non posso. I suoi versi sgraziati svergarono tutti e misero in fuga la volpe. “E’ stata una fortuna che sia scattato l’allarme - constatò Osvaldo – altrimenti a quest’ora noi del pollaio saremmo morti!”

“Ma quale allarme e allarme; - ribattè Pipino –non abbiamo mai avuto un antifurto a Belcolle”

“Allora che ha fatto scappare la volpe?” si chiese Stella.

“Non può essere stato che il pavone” - riflettè Briciola – quando l’ abbiamo scacciato, ho visto che saliva su uno degli alberi qui attorno”.

“allora è a lui che dobbiamo la vita” constatò Osvaldo.

“Mostriamogli la nostra riconoscenza – proposero le galline – dai Briciola vai a chiamarlo!”. Il cane si avvicinò all’albero su cui il pavone era ancora appollaiato e lo invitò a tornare alla fattoria. Tutti gli animali gli si fecero incontro e lo ringraziarono abbracciandolo.

“Ci hai salvato da una grave minaccia; - disse Osvaldo – perciò se vorrai ancora restare a Belcolle io e le galline saremo lieti di ospitarti e dividere con te il nostro cibo!”

“Grazie, siete gentili – rispose un po’ confuso il pavone – ma io continuo a non avere un’occupazione!”

“No, ora ce l’hai. Sarai la nostra vedetta e dovrai segnalare i pericoli che potrebbero minacciare la nostra sicurezza!” dichiarò Pipino.

“Oh, mille grazie amici! Sarò felicissimo di potermi rendere utile” esclamò il pavone.

“Bene, bene. Ora che tutto si è concluso per il meglio, vuoi dirci il tuo nome?” disse Briciola.

“Io non ho un nome, anzi non ne ho mai avuto uno!” rispose il pavone.

“Oh, poverino! Se non hai nome dobbiamo trovartene uno….. mmmmm Da oggi ti chiamerai….. ti chiamerai……….. Sirena!” esclamò Stella.

Gli altri approvarono e da quel giorno vissero insieme, felici e….. sicuri.

(I bambini di prima e Fiorenza, 2010)

La storia dell’uovo pazzo

Questa è la storia della gallina simpatica.

In un pollaio che fu costruito sopra una pianta enorme ci stavano in pensione 25 galline tutte colorate e 3 galli, tristi e pensierosi. Le galline tutte le mattine andavano a lavorare nei campi, dovevano raccogliere il cibo per tutti gli abitanti del pollaio, poi dovevano fare i dolci con le poche uova che facevano ed infine i mestieri nel pollaio che erano pesanti. Per tutti questi motivi da un po’ di tempo a questa parte le galline facevano poche uova e il contadino chiamò il maestro che doveva insegnare alle galline cosa dovevano fare per ricominciare a fare le uova come prima. Il maestro disse a tutte le pollastre che per iniziare ,2 volte la settimana avevano l’obbligo di fare ginnastica in palestra e dopo, quasi subito, andare dalla parrucchiera per farsi belle e correre di corsa in discoteca. Per 3 giorni la settimana mangiare: prosciutto cotto, mozzarelle, pomodori, salami, carciofi, verdure e qualche formaggio buono. Una di queste galline di nome Gianna, iniziò questa dieta che a dir suo sembrava interessante, dopo 3 settimane non vide nessun risultato. Mentre già qualcun’altra gallina si sentiva contenta perché qualche ovetto lo ricominciava a fare. Gianna tutti i giorni mangiava quanto detto dal maestro, poi si metteva la tuta trasparente gialla e correva in palestra a fare ginnastica, ma risultati dopo 2 mesi …. Niente. Una sua amica le disse che doveva correre molto per fare le uova. Iniziò pure a fare questa ulteriore attività. Un giorno che pioveva tanto Gianna stava distesa sulla paglia e si sentì pronta per fare un uovo, sembrava un bell’ovone, grande da come si muoveva sotto le piume. Corse in fretta e furia sul cesto dove tutte le pollastre fanno i loro ovetti e si sdraiò pronta per fare il suo uovo dopo 2 anni che non produceva più questi suoi tesori. Spinse, spinse, spinse così tanto che quando finì si sentì libera, ma pure stordita da quello che aveva fatto. Per colpa della dieta del medico, per le corse sempre in fretta e per la sua fretta Gianna fece si l’uovo ma questo mescolato con tutto quello che aveva mangiato si trasformò in una bellissima e buonissima pizza. Era una grande pizza con tante cose buone sopra , Gianna non aspettò troppo tempo  a dividere con le sue amiche galline ed anche i 3 galli, sfaticati il prelibato piatto. Festeggiarono tutti insieme e bevvero tanto vino, le galline cantarono mentre i galli dormirono fino a mezzogiorno. Da quel giorno Gianna divenne la gallina più simpatica perché tutti i venerdì faceva la pizza, la mangiavano, il sabato i galli dormivano e le galline cantavano. Dopo 5 anni andarono al festival di Sanremo e vinsero il primo premio per la classe over. A Gianna fu fatta la statua nel pollaio e 2 volte all’anno ancora oggi si può mangiare la pizza fatta dalla gallina più simpatica di Ovorotondo.

Ciao , attenti all’uovo………..

Storia di un bambino grasso

Gigino era un bambino grasso che passava ogni suo momento libero davanti alla T.V. o giocando alla play-station. Anche se tutti lo scherzavano “ciccione”, lui continuava a mangiare cioccolato, il suo cibo preferito. Alcuni giorni prima della Pasqua arrivò a casa di Gigino un enorme uovo di cioccolato: era così grande che il camion che lo trasportava dovette lasciarlo in giardino perché non passava della porta d’ingresso. Il bimbo goloso chiese ai genitori di poterlo rompere subito, ma la risposta di mamma e papà fu “Devi aspettare fino domenica”. Gigino finse di obbedire e dopo cena si ritirò in camera sua dicendo di avere sonno. Invece aspettò che i genitori andassero a letto, poi uscì di casa, si avvicinò al suo uovo, strappò un poco la carta colorata che lo avvolgeva e cercò di addentarlo. Purtroppo il cioccolato era talmente spesso che i suoi denti non riuscirono nemmeno a scalfirlo. Gigino allora corse in garage, rovistò tra gli attrezzi del papà e scelse il martello più grosso e pesante. Tornò vicino all’uovo e cominciò a colpirlo più forte che poteva. Picchiò e picchiò per tutta la notte, faticò e sudò finchè il cioccolato si frantumò in tanti pezzi. Ormai si era fatto giorno e finalmente Gigino potè vedere la sorpresa: dentro l’uovo c’era un grande specchio che rifletteva l’immagine di un bambino stanco, sudato, sporco di cioccolato e….magro! Gigino si guardò e si rimirò a lungo, quasi senza riconoscersi; poi capì che tutte quelle ore di duro lavoro avevano sciolto il grasso del suo corpo. Felice del nuovo aspetto sorrise ai genitori che lo osservavano dalla finestra e promise solennemente che da quel momento avrebbe iniziato a mangiare in modo sano (con tanta frutta e tanta verdura) ed a praticare un po’ di sport ogni giorno. Infine chiese di poter organizzare una bella festa a cui invitare tutti i compagni di scuola per dividere con loro  quella montagna di cioccolato.

(I bambini di prima e Fiorenza – 2010 -)

Il drago burlone

C’era una volta la storia del Drago Burlone, che si divertiva a fare scherzi al suo caro amico il principe tartaglione.
Quatto quatto da dietro gli si avvicinava e con un grosso boato ogni volta il suo amico spaventava, al principe dallo spavento la mitraglia gli partiva… atttt… atttt… atttt… cominciando a tartagliare, ma il Drago divertito la faccia gli cominciava a leccare, gesto tenero un bel pensiero, un po’ burlone forse, ma un drago sincero…

Atttt…attt… attt…tentoooo… drago bubuuu… bububuuu…bububurlone… che a suon di spaventi, prima o poi, mi mi miii mi mi cadran tu tu tuuutti i denti…

Allegro e gioioso il Drago vola verso il cielo, per giocar con la scia delle nuvole e ad attraversar l’arcobaleno… Crea le forme più strane, con  la sua coda che pennella il cielo, tra spruzzi di colore, gioia e affetto sincero, colora il cuore di chi ancora riesce a sognare, e se coltiviam il pensiero giocoso con lui torniamo a volare…

Il cielo in una stanza cantava una canzone, ma il cuore sempre di più liberiam dalla prigione, col pensiero giocoso innalziamo i nostri umori, tra il cielo e la terra e i loro colori.

Metafora ardita e un poco aggraziata sul quale scorre un messaggio in cui pure la luna si è specchiata, leggi il riflesso come ti pare ma sappi che il pensiero giocoso il drago burlone ti vuole portare.

Mondo bambino, mondo sommerso, ma il Drago burlone è sempre lo stesso, pronto a nutrirsi del pensiero giocoso, attraversa le nostre paure, e chissà come fa…è proprio un tipo curioso…

Riscoprendo l’arte di giocare, allora si che l’amore possiam coltivare…

Adulto osserva i bambini, non ti vergognare, impara da loro, e torna a giocare.

Ci insegnano a vedere, ci insegnano a creare per costruire un mondo giocoso in cui potersi specchiare.
A te che stai ascoltando, cavalca il drago burlone e coltiva il pensiero giocoso, quella è la nostra vera missione, non un mondo nervoso.

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